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TEMPI MODERNI di Charlie Chaplin

.. QUANDO IL CINEMA ERA MUTO...
 
 

Il gregge di pecore che compare nella prima inquadratura del film è apertamente immagine/specchio degli operai che si affrettano a entrare in fabbrica per iniziare una nuova giornata di lavoro. Chaplin è tra questi, lavoratore che presto mostra i segni dell’alienazione fisica e psicologica delle lunghe ore trascorse alla catena di montaggio. Il padrone vigila sui suoi operai grazie a un mega schermo e, per aumentare la produttività, non esita a sottoporre il povero Charlot a un esperimento di pausa pranzo meccanizzata. E’ troppo. Il nostro protagonista non regge lo stress e finisce nell’ingranaggio delle macchine della fabbrica.

La degenza in ospedale non lo guarisce completamente e la povertà non lo abbandona, anzi sembra che il destino si accanisca ulteriormente e Charlot finisce pure in carcere. Per fortuna incontra una ragazza, povera quanto lui e insieme si proteggono, si incoraggiano, tentano di inventarsi una vita a due in una misera casetta e, soprattutto, sognano. Trovano persino un lavoro: lei come ballerina e lui come cantante e il successo sembra lì, a portata di mano, ma non è così facile e ancora una volta la polizia irrompe nella loro vita e li costringe a una fuga precipitosa.

Nonostante ciò non si danno per vinti ed ecco che ripartono per una nuova rinascita tenendosi per mano.

 

con: Charlie Chaplin, Paulette Goddard, Henry Bergman
durata: 89'
età consigliata: dai 12 anni

 

   

trailer 

Diretto nel 1936, quando il passaggio epocale dal muto al sonoro (avvenuto nel 1928) era già stato consumato, Tempi moderni rimane un capolavoro indiscutibile, pluripremiato e saccheggiato da registi noti e meno noti, visto e analizzato da diverse generazioni di spettatori.

Chaplin nel '36 ha già alle spalle una carriera di successo con film quali Il monello e La febbre dell’oro, eppure vuole manifestare il suo scetticismo verso il sonoro lanciando una sfida alla modernità. Ne esce un film ibrido, muto per quanto riguarda i dialoghi, ma ricco di rumori (sirene della polizia e dell’ambulanza, borborigmi, apparecchi radio...) dove per la prima e ultima volta sentiamo la voce di Charlot nella canzone “Je cherche après Titina”, cantata dallo stesso Chaplin mentre balla. Canzone senza un vero testo (Nonsense song), miscuglio di parole prive di nesso logico e addirittura prese in prestito da diverse lingue straniere, quasi a indicare la confusione e l’inutilità di una comunicazione verbale. Con Tempi moderni scompare la figura del vagabondo che rimane un personaggio muto, perché, come dichiara Chaplin stesso, “Charlot non poteva parlare”.

Il film è composto da due blocchi narrativi e da un finale aperto. Due infatti sono le tematiche principali che rispondono ai bisogni primari dell’uomo: lavoro e amore. Se il lavoro, soprattutto quello legato alla catena di montaggio, mette a dura prova la resistenza dell’uomo e ne amplifica la fragilità, l’amore può venire in suo soccorso. In fabbrica la macchina è dominante, detta i ritmi, inghiotte, fa smarrire la ragione. Il padrone, attraverso un monitor, incombe con la sua presenza ingombrante e fa sentire tutti controllati, anticipando di vent’anni l’occhio del grande fratello di Orwell.

Quando la realtà sembra troppo dura per essere affrontata, l’amore rappresenta un’opportunità, una possibilità di salvezza che il vagabondo coglie per dare un senso al suo fare e per restituire il sorriso alla sua giovane compagna che, quanto lui, appartiene alla classe sociale degli “affamati”, ma che possiede una sorta di spensieratezza, di coraggio che la portano a ribellarsi al suo destino. Il cinema di Chaplin è, per eccellenza, arte visiva. I gesti, gli sguardi, le inquadrature sono piccoli miracoli della comunicazione, partiture di jazz session dove davvero le parole diventano superflue.

Come dimenticare le numerose metafore che accompagnano la narrazione? Una su tutte: Charlot pattina spensierato nel reparto giocattoli di un grande magazzino e rischia più volte un salto nel vuoto e, mentre lo spettatore trepida davanti alle sue volute, comprende la precarietà e i pericoli della vita condotta dal vagabondo.

Chaplin affida a Charlot, prima di abbandonare il suo personaggio un po’ folle in quanto portatore di verità, un messaggio di speranza nel futuro. Camminare insieme, tenendosi per mano e seguendo la riga spartitraffico, fa sembrare la strada meno ardua e perigliosa. In fondo Charlot è un piccolo ragazzo selvaggio appartenente a una classe sofferente dal punto di vista economico, un signor nessuno ingenuo e sprovveduto, ma ricco di intelligenza emotiva che, in quest’ultima apparizione, trova nell’amore il suo possibile riscatto. Non lo vedremo più, ma lo ricorderemo, in cammino, verso “l’alba”.

                                                                             Franco Brega, Tullia Castagnidoli

 

 

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