.. QUANDO IL CINEMA ERA MUTO... | ||
Toni è un cristiano maronita proprietario di un’autofficina e vive a Beirut. Sotto la propria abitazione stanno facendo dei lavori di ristrutturazione e il capocantiere, avendo il suo balcone una grondaia non autorizzata che sgocciola, dopo avergli chiesto di ripararla, decide di provvedere, senza più chiedere alcuna autorizzazione. Alle proteste di Toni segue un insulto, da parte di Yasser, di origine palestinese. Toni è deciso a denunciarlo, se questi non si scusa. Il responsabile della ditta, Talal, cerca di mediare, con scarso esito. Quando finalmente riesce a convincere Yasser a scusarsi, lo accompagna all’autofficina di Toni ma questi, a sua volta, lo offende pronunciando una frase che suscita una reazione violenta da parte del capocantiere. Nel frattempo la moglie di Toni, incinta, è ricoverata d’urgenza in ospedale per aver soccorso nel cuore della notte il marito sentitosi male. I toni si inaspriscono ulteriormente, con l’ausilio di avvocati agguerriti. Un banale litigio tra due persone, si trasforma in un conflitto di proporzioni incredibili, diventando poco a poco un caso nazionale, un regolamento di conti tra culture e religioni diverse. Al processo oltre ai legali e ai famigliari, si schierano due fazioni opposte di un Libano che all’indomani della guerra civile che ha sconvolto il Paese, durata quindici anni, non ha ancora fatto i conti col proprio passato e soprattutto con le proprie ferite. con Adel Karam, Kamel El Basha, Rita Hayek
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Presentato in concorso alla settantaquattresima edizione della mostra veneziana, il film è ambientato ai giorni nostri in una capitale dove un banale incidente dà il via al susseguirsi di reazioni, a un evento che va fuori controllo, ponendo in evidenza la precarietà di certi equilibri, una polveriera pronta a esplodere ancora a trent’anni dalla risoluzione di una guerra che ha visto numerosi contendenti e frequenti capovolgimenti di alleanze, senza vinti né vincitori, dove, per dirla col regista, “l’amnistia generale si è trasformata in amnesia generale”. Nato a Beirut, Doueiri lascia il Libano nel 1983, appena ventenne, per gli Stati Uniti, dove con una laurea in cinema, lavora come assistente e cameraman a Los Angeles, al fianco di importanti registi. Nel 1998 esordisce nella regia con West Beyrouth, una sorta di diario, film-ricordo in cui racconta la propria giovinezza in una città divisa in due fazioni opposte, poco prima di decidere di emigrare. Dopo quasi vent’anni, Ziad Doueiri per il suo nuovo lungometraggio (quinta regia, inclusa la serie televisiva Baron Noir) fa ritorno in Libano che, metaforicamente, porta davanti al banco degli imputati. Se già in West Beyrouth al regista non interessava mettere in luce le ragioni del conflitto, quanto cogliere i meccanismi che generano sospetto e intolleranza, nell’Insulto, ciò che più gli preme è porre l’accento su una società ancora profondamente divisa e segnata da barriere, evidenziando le implicazioni in primo luogo sul piano individuale. Doueiri oppone due protagonisti che sono sì rappresentanti di mondi differenti, ma costituiscono parti di un’unica vicenda, elementi di una storia che contiene più verità. Rivoltosi al tribunale per ottenere giustizia, Toni a sua volta dovrà rendere conto di fronte al giudice delle proprie azioni, che non sono prive di conseguenze, infatti, ha offeso con una grave ingiuria l’accusato. Un conflitto a due, che si riverbera in quello ingaggiato dai reciproci avvocati, un padre e una figlia. Quella di Doueiri è una regia sicura, che si avvale di una buona direzione degli attori, Adel Karam e Kamel El Basha sono perfettamente calati nei loro personaggi e nei loro silenzi dolorosi. Una scrittura che sa imprimere la giusta accelerazione, nel momento in cui prende il via il dibattimento in aula con chiamate a sorpresa di testimoni e colpi di scena che riguardano gli argomenti più delicati, entrando nella sfera personale e famigliare di entrambe le parti. Le testimonianze riportano a drammi passati, lasciando affiorare ricordi di eccidi brutali, come quello avvenuto nel campo profughi di Tel al-Zaatar nell’agosto 1976, dove le truppe falangiste cristiano-maronite spalleggiate dalla Siria, massacrarono quasi tremila palestinesi ivi alloggiati. E quello nella cittadina cristiana di Damour, dove furono uccisi quasi seicento abitanti per rappresaglia dalle milizie palestinesi. Lo spazio urbano che all’inizio fa da sfondo, un cantiere in pieno rinnovamento, poco alla volta, col progredire della vicenda, si fa più articolato, soffocante, labirintico, un percorso a ostacoli nel cuore della notte, dove un inseguimento a un presunto colpevole col volto coperto, a bordo di un motorino, si trasforma in una vera e propria caccia all’uomo. Immagini di un presente sulle quali si sovrappongono i ricordi di Toni ragazzino che sulle spalle del padre scappa, sfuggendo all’orrore del massacro a Damour. Una memoria individuale che si coniuga al plurale, per divenire memoria collettiva. Luisa Ceretto
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