.. I MESTIERI DEL CINEMA... | ||
|
||
Ogni sera, tra le pareti di una scuola del quartiere multietnico del Pigneto di Roma, un gruppo di 17 studenti adulti di nazionalità diversa si riunisce per imparare la lingua italiana. Valerio Mastandrea è l’insegnante che, senza pedanteria e retorica, ma anzi con un modo fresco e accattivante di far lezione, ci accompagna dentro questa classe meticcia e, a passi lenti, ci rende partecipi delle storie dei suoi alunni che mettono in scena se stessi. Si tratta di uomini e donne provenienti da differenti angoli del pianeta, che hanno scelto di tornare tra i banchi di scuola per conseguire i documenti necessari per restare nel nostro Paese e per apprendere meglio la lingua che, almeno nelle speranze, dovrebbe permettere loro una migliore integrazione in Italia. Il film, e proprio in questo sta l’elemento di originalità, sin dall’inizio si muove su due registri narrativi. Da una parte ci mostra l’insegnante alle prese con le lezioni di grammatica, con tecniche e metodologie attive usate per affrontare argomenti vari, per suscitare dialoghi e dibattiti e per simulare colloqui di lavoro. Dall’altra, senza nascondere ciò che normalmente sta fuori dallo schermo, mette in scena la troupe che si mostra nel proprio lavoro: i fonici in campo, i ciak ripetuti, il confronto tra Mastandrea, gli studenti e la produzione. E, soprattutto, mostra il regista che, in seguito a un fatto reale accaduto durante la lavorazione del film, decide di doverci mettere la faccia per raccontare una storia più vera del vero.
con: Valerio Mastandrea durata: 86' età consigliata: dai 16 anni
|
||
La mia classe di fatto è un film nel film che nasce da un incidente di percorso, da un’inaspettata incursione della realtà nella finzione, a cui fa seguito una scelta narrativa capace di farsi strada fra coscienze sopite e di restituirci l’idea di cinema utile. All’inizio, come dichiara lo stesso Gaglianone, il film era stato concepito come la storia di un insegnante alle prese con un gruppo di studenti stranieri che dovevano condividere le loro esperienze, “la trama del film era ispirata alle vite dei nostri studenti, alle situazioni che stavano vivendo in quel momento della loro permanenza in Italia. L’intenzione era quella di calarci il più possibile dentro la loro reale esperienza e farla incontrare con l’idea drammaturgica legata al personaggio del professore che avevamo elaborato. Ma a un certo punto la realtà con cui siamo entrati in relazione ci è esplosa fra le mani. Allora, grazie anche a intense conversazioni con Valerio e gli altri, abbiamo deciso di fare entrare a gamba tesa nel film tutto il disagio che stavamo provando in quella circostanza”. Così il regista ha pensato di mischiare i due livelli: uno in cui Valerio Mastandrea interpreta il professore e gli studenti si raccontano e un altro nel quale si mostra in diretta il fatto che si sta girando un film. Questi due livelli si sono intrecciati fino a diventare inscindibili e hanno fatto saltare tutte le categorie a cui un racconto per immagini solitamente può essere ricondotto. Non un documentario, non un film di finzione, né docufiction o backstage. La mia classe è diventato qualcos’altro “una sorta di riflessione sulla natura duale dell’immagine che rimanda a due universi che spesso vogliamo separati, ma che invece separati non lo possono essere quasi mai”. In questo modo, quando la realtà ha invaso la finzione ed è stata riproposta come tale, nel suo “farsi”, ha costretto lo sguardo degli spettatori non più e non solo a prendere atto ma a partecipare, prendere posizione, indignarsi. Per questo i racconti toccanti e a tratti drammatici, intrisi di malinconia e fatica, ma anche di sogni e di speranza dell’egiziano Shadi, della nigeriana Easther, dell’iraniana Moahbobeh, del senegalese Moussa, dell’ivoriano Issa, del guineiano Bassirou, dei bengalesi Mamon, Shujan e Nazim, del filippino Gregorio, della peruviana Jessica, dei turchi Metin, Remzi e Ahmet, del brasiliano Pedro,|della tunisina Benabdallha e dell’ucraina Lyudmyla, arrivano dritti alla coscienza e al cuore, suscitano forte partecipazione emotiva e colpiscono più di qualsiasi statistica, più delle immagini di sbarchi, naufragi o arresti offerti quotidianamente dal “baraccone televisivo”, perché non spettacolarizzano, né “mostrano semplicemente” una realtà cruda, ma la raccontano. Rendono “visibili” i migranti, ne tracciano storie e fisionomie e così facendo li trasformano in simboli universali e ci chiamano in causa in quanto spettatori, ci costringono a leggere le contraddizioni del nostro Paese e a guardare negli occhi le dignità offese e i desideri di riscatto. Una scelta, quella di Gaglianone, coraggiosa e intelligente per provare con forza a scalfire la granitica indifferenza di chi non si cura dell’integrazione dello “straniero” e per sottolineare la necessità che il cinema non si sottragga mai alla realtà complessa del nostro presente. Patrizia Canova
|