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IL BAMBINO CHE SCOPRÌ IL MONDO di Alê Abreu

.. QUANDO IL CINEMA ERA MUTO...

 

Un bambino trascorre le giornate assieme alla sua famiglia, giocando in una campagna verde e sconfinata, traboccante di suoni e colori, gioia e armonia. Un giorno il padre gli comunica che dovrà partire per la grande città a causa del lavoro, procurando nel figlio un grande dolore e senso di smarrimento. Prima di lasciarlo, il padre intona per lui una dolce melodia con il flauto che lascerà un ricordo indelebile nel cuore del piccolo.

Provato dalla malinconia che l’assenza della figura paterna ha lasciato, il protagonista decide di partire e di mettersi sulle sue tracce, portando e custodendo gelosamente con sé una foto dei genitori. L’abbandono della terra d’origine lo porterà a conoscere un mondo completamente diverso, triste e desolato, fino ad allora sconosciuto. Qui scoprirà sconfortanti realtà come la disuguaglianza sociale, lo sfruttamento lavorativo, la razionalizzazione del ciclo produttivo, le catene di montaggio, l’alienazione che riduce le persone ad automi, le dittature militari, l’inquinamento ambientale, le città sovraffollate e l’indifferenza umana.

Questa esplorazione lo porterà a conoscere sentimenti nuovi, lontani dalla spensieratezza del luogo ameno dove è cresciuto.  Mosso dal desiderio di rivedere suo padre e di riudire la melodia infantile, il piccolo affronterà prove e pericoli, dolore e delusione ma preserverà sempre il candore e il ricordo dei lontani giorni dell’infanzia.

durata: 80'
età consigliata: dai 10 anni

 

   

trailer 

 

Doveva essere un documentario sulla costruzione dei Paesi dell’America latina e invece, grazie al rinvenimento di un vecchio disegno infantile, Alè Abreu ne ha fatto una storia universale dove le tappe dell’evoluzione civile e politica del suo Paese vengono percorse attraverso la storia di un bambino, segnato dalla partenza del padre per la grande città. Prima di partire, il genitore intona al figlio una melodia con il flauto e il suono diviene materico, le note si disperdono per l’aria come petali che il bambino vorrebbe trattenere e conservare.

O menino è un viaggio di crescita e di esplorazione, dalla bellezza alla disumanità del mondo, un percorso di prove dove la memoria chiede di essere preservata. La storia non descrive solo il taglio di una paternità ma il distacco e la perdita di una dimensione ancor più originaria come la natura. Significativa è l’attenzione verso i modelli organizzativi industriali e le catene di montaggio, sulla tecnologia e la produzione di massa di contro alla purezza dei paesaggi naturali dove il bambino è cresciuto. Le condizioni in cui lavorano gli operai insieme ad alcune scene di controllo sociale ricordano Metropolis di Fritz Lang. Ma non dobbiamo dimenticare le vicende storiche che hanno dilaniato i Paesi dell’America Latina, riducendoli a colonie fornitrici di materia prima e manodopera a buon mercato, così come i colpi di Stato e le dittature militari la cui eco riaffiora in questa narrazione inquinandone l’ingenuità iniziale. Non c’è l’umorismo di Tempi moderni con Charlot che avvitava bulloni e la macchina automatica di alimentazione che perdeva il controllo.

L’ilarità cromatica, i disegni semplici e infantili, i ghirigori sonori e le creazioni caleidoscopiche dell’inizio creano l’illusione di una materia per i più piccoli. Qui infatti l’impasto linguistico esplode in linee e cerchi che divengono note e  marchingegni girevoli ma presto, con il distacco dalla figura paterna, il film d’animazione si tramuta in una sorta di incubo in cui la rappresentazione del mondo lavorativo e della vita cittadina spalanca scenari di alienazione, indifferenza, smarrimento. I gesti disumani e la ripetitività rendono gli uomini indistinguibili tra di loro e proprio quando il piccolo protagonista crede di aver riconosciuto suo padre, vede avanzare un’orda di operai con lo stesso volto: tutti ridotti ad automi. L’eco degli svaghi infantili e di una civiltà ‘primitiva’ immacolata, svanisce nella caotica geometria cittadina, nei fumi e nella ritualità sfiancante delle fabbriche; ma la ruspa della storia non riesce a sradicare il senso di una provenienza, anzi incrementa il desiderio e il dovere di conservarlo. E’ la foto che il bimbo porta con sé a ricordargli un’identità, è la vibrazione del suono del flauto paterno che ha raccolto in una lattina. Il respiro ansima, si sospende, a ritmo della batteria di Nana Vasconcelos, uno dei più grandi percussionisti al mondo.  La musica non è un elemento marginale, conferisce il tono agli episodi e il ritmo alla narrazione. Questa sorta di fiaba sconfina dall’origine brasiliana (pur contenendone i colori e il sound popolare) per diventare metafora del mondo: il bambino con i suoi grandi occhi verticali, privo di bocca e quindi di voce, lascia udire solo il respiro trafelato da corse estenuanti, verso orizzonti nuovi e mutevoli.  Egli è ognuno di noi, col proprio bagaglio di sogni, le venature malinconiche, le ferite del mondo e il richiamo alle origini che sempre riaffiora.  

 

Andreina Sirena

                                                                  

 

 

 

                                                                                                   

 

 

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